Incontri One to One tra professionisti: come prepararli al meglio

Incontri One to One tra professionisti: come prepararli al meglio

Gianfranco Parenti 26 Gennaio 2021 training
7 minuti

Quali sono gli ingredienti per preparare un incontro One to One straordinario? Sono sette, tutte le lettere della parola ASCOLTO.

Per presentare al meglio la propria attività e le proprie competenze è necessario imparare a ascoltare. Gli incontri One to One tra professionisti con l’obiettivo di promuovere la propria attività, sono il momento d’avvio di una strategia basata sul passaparola. Servono per conoscere il lavoro del professionista / partner e, allo stesso tempo, per creare una relazione di fiducia.

Non si tratta solo di trasferire informazioni, ma di costruire una relazione basata sull’ascolto reciproco. Come? Gli ingredienti sono sette, tutte le lettere che compongono la parola “ascolto”.

Incontri one to one tra professionisti: come prepararli al meglio
Incontri one to one tra professionisti: come organizzarli al meglio

Ascoltare, non giudicare

Tutti noi andiamo di fretta. Con tutto quello che abbiamo da fare, non possiamo certo perderci in chiacchiere.

“Ma perché non viene al sodo?”; “Uhm, ho capito dove vuole andare a parare”; “Ma come si è vestito?” “È la stessa cosa che ha detto Gianni ieri l’altro, ma lui dov’era quando lo diceva?”

È una tentazione forte imboccare queste scorciatoie per arrivare al dunque. C’è un modo tuttavia per contemperare l’esigenza di non disperdere l’energia che possediamo (mica è infinita) e capire fino in fondo il nostro interlocutore.

Sospendiamo il giudizio. Aspettiamo a tirare le conclusioni.

Non accontentiamoci di ciò che sappiamo già (o che presumiamo di sapere). Raccogliamo dati, prendiamo, se è il caso, appunti. Riserviamoci una risposta a un momento successivo. Concentriamoci sulla persona che abbiamo davanti. Ascoltiamo l’interlocutore e non il nostro “comitato di direzione”, “corte giudicante” sempre al lavoro dentro di noi. Quando avremo più elementi in mano e non solo due o tre indizi, emetteremo la sentenza.

Ascoltare oltre le parole (gesti, non verbale)

“Passami il sale” dice il marito alla moglie: a leggerle e basta queste parole, avulse da qualunque contesto, non le comprendiamo, al di là del banale significato letterale. Le stesse, dette, possono risuonare come un gioco amoroso se sono accompagnate da un ampio sorriso, uno sguardo morbido e un tono di voce dolce come il miele; potrebbero anche presagire l’avvicinarsi di una burrasca familiare se il tono è duro, lo sguardo severo e gli occhi guardano da un’altra parte mentre la bocca è piegata in una smorfia sprezzante.

Sono i gesti che accompagnano le parole, lo sguardo, la mimica facciale, l’intera postura del corpo che invitano il nostro interlocutore a farci comprendere che cosa vuole dirci davvero. Ascoltiamolo con gli occhi, osserviamolo. Dove tiene le mani? È irrigidito come un soldato di fronte al sergente o, sorridendo felice, sembra danzare per la stanza? C’è coerenza fra i vari piani della comunicazione o questi sono fra loro dissonanti?

“Sì, sono proprio felice” detto con tono mesto, le spalle incurvate, le ginocchia flesse e lo sguardo al suolo, non suona molto credibile, vero?

Ascoltiamo certe parole più di altre

La nostra lingua raccoglie centinaia di migliaia di parole, ne conosciamo qualche decina di migliaia e, alla fine, ne usiamo non più di due o tremila. Affezionati al nostro lessico famigliare, prediligiamo servirci di termini a noi cari che, proprio perché tali, ci sono più comodi, li riteniamo più versatili, meglio adatti a rappresentarci e a dare valore alle cose che siamo impegnati a raccontare.

Questo rappresenta anche il nostro stile, la cifra della nostra comunicazione. È un fatto importante. Tuttavia, come tutte le medaglie, ha il suo rovescio. Quando uno di quei termini a noi più cari è il nostro interlocutore che l’adopera, corriamo il rischio di fraintenderne il senso perché siamo già abituati a leggerlo nel modo a noi usuale. Ma sarà anche quella l’intenzione del nostro interlocutore? Se non lo verifichiamo, rischiamo di giungere a conclusioni errate.

Ascolto disgiuntivo

Qui vorrei richiamare l’attenzione sulle congiunzioni che fanno benissimo il loro lavoro. Che è appunto quello di congiungere, di unire, di mettere insieme, di costituire un ponte fra un argomento e l’altro.

Ma ci sono anche congiunzioni disgiuntive che fanno altrettanto bene il loro lavoro che è quello di considerare opzioni ulteriori, scenari possibili, ambiti diversi.

“Fai così come ho detto o sono guai!” dice la madre al figlio disobbediente. “Vuoi andare al cinema o a teatro?” chiede premuroso il marito alla moglie.

Bene, quando ascoltiamo il nostro interlocutore dobbiamo prestare attenzione a tutta questa ricchezza della congiunzione disgiuntiva. Stiamo davvero ascoltando il fatto che la persona ci sta raccontando? Oppure siamo impegnati in una sorta di ascolto interno, ascoltiamo cioè ciò che noi sappiamo di quel fatto. Oppure ancora: se lo stesso fatto, noto o ignoto che sia ce lo racconta Tizio, lo ascoltiamo con più attenzione di quanta ne presteremmo a Caio? Come dire: che cosa ascoltiamo? Il fatto in sé? O quello che già ci è noto? O chi ce lo racconta? Se sappiamo che siamo sensibili alle distrazioni ci converrebbe lavorare sul nostro ascolto partecipativo. In che modo? Verificando spesso se abbiamo ben capito quanto ci è stato detto. Questa modalità ci permette di restare attaccati ai fatti e di contenere il rischio della distrazione.

Ascoltare la logica e la struttura sottostante il discorso

Il modo con il quale il nostro interlocutore costruisce il suo discorso ha una grande valenza persuasiva. Molte persone possono risultare più efficaci di altre nella comunicazione, perché più capaci di farsi ascoltare adoperando modi che agganciano l’attenzione dell’interlocutore attraverso l’uso sapiente della tecnica.

Il nostro cervello cade in maniera quasi automatica in alcune trappole che possono essere predisposte più o meno consapevolmente da coloro che ci vogliono convincere: quando qualcuno le mette in atto, proviamo una voglia irresistibile di credergli.

Proviamo a vederne un esempio: alla posta, in coda alla fotocopiatrice in ufficio, al supermercato, nell’ambulatorio medico per scavalcare una fila lunghissima, se si chiede con un tono di voce dimesso e molto gentile il permesso di scavalcare tutti, spiegando le ragioni che ci portano a chiedere questa cortesia, è più facile riuscire nell’intento. Perché? Nella nostra ostentata modestia abbiamo solleticato il desiderio di sentirsi potente del nostro interlocutore che, lusingato, ci cede il passo. Se vogliamo disinnescare questa trappola basta fare domande di approfondimento, promuovendo una sincera attenzione nei confronti dei bisogni dell’altro, evitando tuttavia di mortificare i propri.

Ascoltare tra e sotto le parole

Come abbiamo già detto, coinvolgere la persona che stiamo ascoltando è certamente il modo più efficace per riuscire nel nostro intento che è quello di capire e comprenderne le sue ragioni. L’atteggiamento al solito fa la differenza: protendersi verso l’altro, guardandolo in faccia, attenti al suo eventuale silenzio, segnale apparentemente debole ma potentissimo, è consigliabile.

Da un punto di vista del linguaggio verbale è opportuno fare domande, le classiche domande, tutte quelle previste dalla formula delle 5 W

  • When, Why, Where, Who, What
  • Quando, perché, dove, chi, cosa

Alle quali vanno sommate le altrettanto celebri Q di San Tommaso:

  • Quantum, quomodo, quibus auxiliis
  • Quanto, in che modo, con quali mezzi

Fare domande serve a farci conoscere e comprendere il “mondo” dell’altro. Non solo: porre domande ci legittima come persone attente, interessate, protese alla collaborazione, su un piano di parità, di simmetria relazionale con l’altro.

Quando però interroghiamo il nostro interlocutore chiedendogli perché pensi, faccia, dica quello che pensa, fa, dice, spostiamo il piano relazionale da simmetrico a complementare. Chiedere “perché” all’altro è come invitarlo a giustificarsi e contestualmente è invitarlo ad assumere una posizione subalterna davanti a noi. Siamo sicuri che è quello che vogliamo?

Once upon a time … C’era una volta

Sotto ogni fatto, dietro ogni informazione c’è di sicuro una storia, un racconto, qualcosa di importante, di profondo che ha valore per il nostro interlocutore.

Le persone, quando viene chiesto loro di raccontarsi, di solito ne sono felici. Parlando di sé ci donano informazioni sulle informazioni, ovvero ci mostrano cosa pensano, qual è il loro atteggiamento verso la vita, gli altri, le cose, il mondo. Se impariamo a diventare ascoltatori empatici, genuinamente interessati agli altri, i nostri interlocutori se ne accorgono e si aprono con generosità.

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