Che persona è quella che riceve un dono, lo ricambia o lo offre per prima? È una persona in relazione.
Parliamo di un individuo che attraverso l’agire simbolico costruisce un legame, in qualche misura dedicandosi (sì, proprio come una dedica), insieme all’oggetto che scambia: si dona annunciando la propria disponibilità. È importante. Ha valore. Semina.
Chi è infatti quella persona al di fuori delle relazioni che intrattiene? La domanda suona gratuita, appena retorica, ma proviamo ad andare avanti… sulla fiducia.
Quante volte ci viene ricordato, addirittura richiesto, magari con un tono di rimprovero? Quante volte ce lo siamo raccomandati da soli, quasi fosse una prescrizione: sii te stesso! E come, e perché, e cosa ho fatto?
Di primo acchito è giusto, suona corretto, rimanda a un comprensibile e auspicabile atteggiamento di coerenza: ci ricorda che #nomatterwhat, quali che siano le circostanze, dobbiamo confermare la nostra integrità, chi siamo, ciò che pensiamo, le cose a cui diamo valore. Vero, giusto! Ma perché il rimprovero, più o meno tacito? Ci torniamo fra poco, per il momento facciamo un passo indietro.
Un tradizionale e un po’ abusato esperimento di pensiero chiede che rumore faccia un albero che cade in una foresta dove non c’è nessuno ad ascoltare. Domanda: c’è una risposta? C’è un rumore? E quale sarebbe? La domanda è filosofica, ma la questione è reale (le domande filosofiche, quando sono buone, ci aiutano a capire la realtà in cui viviamo). Il fatto è che ognuno di noi è sé stesso, sì, esiste… ma sempre in comunità.
Anche se la comunità non è presente in quel momento, anche quando gli altri non ci sono. Qualche volta sentiamo il bisogno di essere soli. Soli in una foresta, al mare, in casa, una sera tardi in ufficio… sì, siamo soli, è così, è vero: ma siamo soli sempre “insieme”, collegati idealmente e mentalmente alla nostra rete di relazioni. Era così anche prima del web, siamo sempre vissuti in rete. Oggi è una rete tecnologicamente più avanzata, molto di più, ma è così che gli umani vivono: in relazione, in società.
Certo che sì: integrità e coerenza sono valori, lo abbiamo già ricordato. Ma cosa vuol dire? Perché a volte quel sii te stesso! suona come un richiamo, un appello che non riesce a nascondere l’indice puntato sul rimprovero?
Parlando di indici… un’iperbole. In privato, da soli, capita di mettersi le dita nel naso (capita, vero?): dovrei/potrei farlo a tavola, durante una cena con amici?
Sarei così coerente con me stesso, o sono ipocrita se trattengo l’indice? Forse in questo caso, non è detto che una qualche forma di ipocrisia sia da disprezzare. L’iperbole, da definizione, è forzata, proviamo con un’affermazione più comune:
Quello che dico in pubblico è quello che penso in privato, io sono sempre coerente con me stesso!
Caspita! Ma è proprio così? Sì, è così, al nòcciolo è così che funziona o che dovrebbe essere. Sennonché quando riferiamo a casa della discussione che abbiamo avuto in ufficio, la versione un po’ cambia, questione di sfumature, certo, magari il tono non era esattamente quello o le parole che abbiamo usato.
Capita così: in famiglia, il luogo degli affetti, si parla in un modo, al lavoro in un altro. Pensiamo le stesse cose (quasi le stesse cose, a dire il vero) ma in ogni caso le comunichiamo in modo diverso.
È normale, non c’è niente di ipocrita, nessuno scandalo di cui vergognarsi.
È la comunicazione, bellezza!
Dipende anche dal nostro interlocutore. Il mezzo è il messaggio, si usava dire, ed è ancora vero; ma i significati che ci scambiamo sono funzione delle relazioni nelle quali siamo coinvolti. Vero anche questo.
Sicché: sono me stesso quando sono in famiglia e sono me stesso, anche se un po’ diverso, con gli amici; sono un me stesso sul posto di lavoro, sono un altro me stesso nelle relazioni sociali; sono un me stesso molto intimo con il mio partner, sono un me stesso assai pubblico nei profili social… sono tanti me stesso, non perché sono falso ogni volta, ma perché ogni vera relazione fa emergere un profilo di me stesso che si adatta al contesto, che lo considera pertinente, dandogli valore.
Esistiamo solo in relazione, anche quando siamo soli, e tante più relazioni siamo capaci di tessere tanto più scopriamo noi stessi. Anche nelle nostre professioni: ogni volta che incontriamo qualcuno arricchiamo il guardaroba della nostra immagine pubblica.
Avere uno stile riconoscibile è una ricchezza, indossare un carattere, esprimere un modo che ci faccia riconoscere e apprezzare nel nostro lavoro: provare a rappresentare la nostra unicità. Il passaggio ulteriore è saperla declinare nel quotidiano globalizzato. Non è facile ma è senza dubbio un esercizio utile, necessario.
Per distinguersi bisogna essere, a un tempo, se stessi e molteplici. La nostra “dedica” non può che essere personalizzata: seminiamo il nostro patrimonio di contatti tenendo conto del terreno di coltura. Doniamo la nostra molteplice identità al villaggio globale dove ci è capitato di vivere e lavorare.
Il raccolto sarà per tutti.
Founder, CEO & Scientific Programs’ Director at Pino Donghi Communication | Polyhedric man dedicating his Life to Culture
Se vuoi imparare qualcosa di più, chiamami! Io sono a Roma e a Milano: mi chiamano “FrecciaRossa”!
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Veramente interessante.. da leggere e rileggere.. in particolare nelle considerazioni conclusive in “Esistiamo solo insieme agli altri” con particolare riferimento a “Per distinguersi bisogna, a un tempo, essere se stessi e molteplici”: me la sono sentita calzata addosso perfettamente!
Grazie
Giovanni
La coerenza è alla base delle relazioni di fiducia. Ma quanto deve esserlo anche la trasparenza? Bisogna dire sempre la verità nuda e cruda? O trovare un modo per essere meno diretti ed evitare di spaventare l’interlocutore?…
Grazie Pino perché mi hai fatto riflettere!
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