Dell’economia del dono: dare, ricevere, ricambiare

Dell’economia del dono: dare, ricevere, ricambiare

Pino Donghi 18 Gennaio 2021 passaparola
3 min

Si è mai visto – domandava Adam Smith – un cane scambiare un osso con un altro cane?” Difficile, in effetti. Lo scambio è questione specificamente umana, non è un fenomeno naturale.

Nella forma primitiva si chiamava baratto ed è all’origine dell’economia, anche quella di mercato nella quale viviamo e, se tutto va bene, riusciamo a prosperare. Ma non sempre tutto va bene, a volte per nulla. Questione di cicli economici. In quello attuale ci si è messa anche una delle forme di vita più primitive, ben più arcaica del baratto: un minuscolo, semplice, pericolosissimo virus. Sembriamo paralizzati dal contagio.

Ma c’è contagio e contagio, qualcuno anche positivo. Nella storia degli scambi, dei baratti, e dell’economia di mercato, c’è stata anche la tappa dell’economia del dono, preistorica anche questa, precedente l’invenzione della moneta… ma non tutto quello che è precedente dev’essere per forza superato. Nel presente, e anche per il futuro, magari c’è qualcosa del passato che può risultare ancora utile… cosa, per esempio?

Dell’economia del dono ne parla per primo Marcel Mauss, il padre dell’antropologia, basandosi su studi etnografici relativi a società tradizionali. Definisce il dono “un fatto sociale totale”, dove la circolazione delle merci non dipende tanto dalla compravendita quanto dal principio di reciprocità – il campanello comincia a suonare? – ed è composto da tre obblighi fondamentali: il dare, il ricevere e il ricambiare. Qualcuno lo chiama Givers Gain.

Una parte considerevole della nostra morale e della nostra stessa vita staziona tuttora nell’atmosfera del dono, dell’obbligo e, insieme, della libertà. Non tutto, per fortuna, è ancora esclusivamente classificato in termini di acquisto e di vendita. Marcel Mauss

Per fatto sociale si intende qualcosa che coinvolge tutti i livelli della società: non si tratta esclusivamente di una pratica utilitaristica – mi conviene, e tanto basta! – siamo di fronte a un collante sociale, un modo per costruire alleanze. È vero che fa circolare beni e servizi – è l’economia bellezza! – ma mantiene unita la società, è un fattore che limita o esclude l’ostilità. Figo!

Perché succede?

Ma perché il dono non si riduce al suo valore materiale, ne ha anche uno simbolico, per il fatto di essere legato al donatore: il dono che ricevo porta la traccia di chi me lo ha donato. Mi lega a lei, a lui: ci mette in contatto. Ecco perché dev’essere ricambiato: è del tutto evidente che sia formalmente volontario e gratuito ma, in realtà, mi obbliga (Obbligato! si diceva una volta) e serve a consolidare un’alleanza. Se do mi aspetto di ricevere, quando ricevo mi sento in dovere di restituire. È lo stesso principio del commercio, ma mi riconosco in una comunità. Sento l’appartenenza. Mi sento protetto.

Delle pratiche del dono, fanno largo uso le imprese senza fini di lucro, le Ong, le iniziative caritatevoli, a volte anche le pratiche del “give-back” e della “corporate-social-responsability”. Qualche volta inducono nel sospetto: come se gli eccessi non regolamentati (o, Dio non voglia, irregolari) dell’economia di mercato suggerissero, ogni tanto, di restituire il di più, il troppo. Va bene anche questo, ma ci lascia soli. Magari soddisfatti ma separati.

E se fosse invece un modo – arcaico forse, ma è importante? – di lavorare e perseguire il proprio benessere… in comunità, avvertendo di “appartenere”, potendo contare sull’appoggio incondizionato di chi oggi mi aiuta perché sa che, alla prima occasione, gli restituirò l’attenzione ed il favore. Non suona meglio?

In questa notte della pandemia e della società, del vivere nella comunità dalla quale siamo stati esclusi, ripensare l’economia del dono ci fa riflettere, ci lega al donatore, ci fa sentire alleati, ci fa sentire più sicuri. Da soli possiamo sopravvivere il tempo che la pandemia sia sconfitta. Per vivere, dobbiamo tornare insieme.

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